Ritorna “Liberi di pensare”, la rubrica della Pro Loco Bronte dedicata alla filosofia. Stavolta ci affidiamo ai pensieri e alle parole di una nostra affezionata lettrice di Catania, Ivana Zambone. Buona lettura.
Sono trascorsi circa 64 anni da quando Heidegger scriveva così ne “La questione dell’essere”: “Nietzsche chiama il nichilismo «il più inquietante tra tutti gli ospiti» perché ciò che egli vuole è lo spaesamento come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia”.
Sono queste le riflessioni da cui Umberto Galimberti, filosofo accademico e psicanalista, è partito per scrivere “L’ospite inquietante”, nel 2007. E per scavare a fondo sul niente, quel niente che è il movente delle azioni più meschine.
Un nichilismo attivo, filtrato attraverso la psicologia dinamica, potrebbe trasformare quest’invisibile mostro in una grande opportunità, secondo il filosofo. “Se proprio attraverso il nichilismo i giovani, adeguatamente sostenuti, sapessero compiere questo primo passo capace di farli incuriosire e innamorare di sé, l’<> non sarebbe passato invano”, ha scritto.
La cronaca nera, quella giudiziaria, la semplice quotidianità. I “noccioli duri” di una realtà ancora più dura. La durezza del niente, della mancanza di movente, della futile motivazione. Un vuoto che si fa spazio, che inghiotte se stessi e che risucchia anche gli altri.
I casi più esemplari, l’omicidio di Luca Varani, i ragazzi del cavalcavia. La dimostrazione che di niente si può morire e far morire.
Ma di niente si muore anche se il cuore batte ancora. Così i bulli, i manipolatori, i violenti. Morti viventi che ricoprono il posto vuoto della loro assenza, e tentano di farlo distruggendo l’altro, la differenza.
È proprio nella differenza, nell’altro, infatti, che si può scoprire se stessi, che si può percepire la propria individualità. Quanto si deve odiare se stessi per annullare l’alterità, per impedire l’incontro con la propria essenza? Un odio così profondo verso di sé che non trova ragione al di fuori del crimine, quell’azione consideratamente sconsiderata che consente al vuoto reale, insito nel soggetto, di farsi realtà.
Così la scuola ha perso il proprio ruolo di garante dell’identità futura. In essa, “l’autostima dello studente è scambiata spesso per presunzione, e l’autoaccettazione come un esplicito riconoscimento da parte dello studente di non volere un granché (…) si allarga e si approfondisce quella dimensione del vuoto che talvolta porta a gesti irreversibili. A evento compiuto, di solito i professori manifestano meraviglia. Non si meravigliano della loro disattenzione” (U. Galimberti, “L’ospite inquietante”).
E non sembra andar meglio tra le mura di casa, dove non si mangia più insieme, dove non ci si incontra, non ci si racconta, non ci si emoziona. Dove ogni ritmo è scandito non dall’anima e dalle sue passioni, bensì dall’orologio dei contesti. Quei contesti che costringono alle apparenze, alla puntualità di un ufficio odiato, al silenzio.
Nemmeno le piazze offrono un posto per restare, per relazionarsi. Tutto corre veloce verso un luogo invisibile, inesistente. All’interno di una cornice di totale analfabetismo emotivo.
Nessuna traccia che possa condurre alla propria anima, la totale spersonalizzazione di un mondo meccanicistico e sempre uguale che l’essere umano stesso ha costruito.
Esiste un modo per uscire dal nichilismo? “Dio è morto”, diceva Nietzsche, per descrivere la condizione esistenziale dell’uomo moderno. Ma affinché “Dio muoia”, occorre prima averne uno. Affinché i valori e i significati vengano meno, occorre averli posseduti almeno una volta e riappropriarsene in maniera nuova. Una piena accettazione della propria volontà orientata alla felicità, il coraggio di farla diventare atto.
Un atto posteriore alla presa di coscienza che è necessario desiderare la felicità dell’altro per salvaguardare la propria, per realizzarla, per condividerla, per rendersi conto del momento in cui viene meno. Per imparare a rimediare, a ricostruire in maniera creativa, senza più la necessità di distruggere, di annullare, di annichilirsi.
Ivana Zimbone





